di Antonio Giuliano
21-09-2011
«Progetti, appelli, finanziamenti… Ma la mia Africa non è quella dipinta da tante Ong e dai proclami dell’Onu». Dal cuore del Continente Nero arriva lo sfogo amaro di un uomo che da quasi vent’anni condivide con gli africani un destino beffardo.
Padre Aurelio Gazzera, 49 anni, carmelitano scalzo, che oggi vive e lavora a Bozoum (Centrafrica), assiste ormai da tempo ad appelli surreali. L’ultimo firmato dall’Onu denunciava la pratica dei bambini soldato nella Repubblica Centroafricana: «Ma è un fenomeno molto limitato – spiega il religioso - a parte nell’Est del paese, dove l’LRA dell’Uganda è presente da un paio d’anni. In realtà come succede anche per altri paesi africani, molti organismi devono mantenere uffici e personale (tra l’altro strapagato) per cui inventano progetti su temi che sanno essere facilmente finanziabili: bambini soldato, violenze sessuali, genere (gender)… ».
L’amarezza è acuita dal fatto che i veri problemi vengono ignorati: «La Repubblica Centroafricana è agli ultimi posti delle liste dello sviluppo e della qualità della vita. Ha vissuto anni molto bui: la dittatura di Bokassa (l’imperatore) fino al 1978, poi quella di Kolingba, fino al 1994, e poi la presidenza (veramente disastrosa) di Patassè: il paese era arrivato al collasso, con un paio di tentativi di colpo di stato all’anno, violenze e saccheggi, i salari dei dipendenti pubblici non pagati… Ora la situazione è più tranquilla, ma molte zone del paese sono in mano ai ribelli». Ma due su tutte sono le sfide più urgenti: la scuola e la sanità. «Lo Stato – continua padre Gazzera - non riesce ad assumere e a pagare gli insegnanti: i maestri statali sono meno del 20%! Il resto è assicurato dalla Chiesa Cattolica, oppure dai genitori degli alunni… E tra malaria, Aids e parassiti, la situazione sanitaria è difficile. Gli ospedali pochi, e per molti infermieri e medici è una miniera d’oro: tutto è a pagamento… e molti non riescono a pagare cure, medicine o interventi».
La sveglia di padre Aurelio a Bozoum (una piccola città a 400 km a Nord della capitale, Bangui) suona molto presto. «Alle 5 di mattina recitiamo le Lodi e celebriamo l’Eucarestia. Oltre alla Parrocchia, abbiamo un centro per 230 orfani, un dispensario (con annesso uno studio dentistico), un ufficio che coordina le attività agricole, una piccola Cassa di risparmio… E soprattutto le scuole (materna, asilo e scuola media qui in città, per circa 800 alunni; e altre 20 scuole nei villaggi per altri 1800 bambini). Sin dal mio arrivo mi ha stupito l’infinità di bambini (l’Africa è un continente giovanissimo: più della metà della popolazione ha meno di 18 anni), un serbatoio di speranza e di crescita. Quest’anno contiamo di aprire la prima liceo, e se possibile, un liceo agricolo, di cui c’è grande bisogno. Per la Chiesa l’educazione è sempre stata una priorità. Quando i primi missionari arrivarono a Bangui, nel 1894, la prima cosa che fecero fu quella di aprire una scuola: compravano i bambini schiavi, li liberavano e li inserivano tra i banchi…».
Una Chiesa giovane che ha già un buon numero di martiri, anche laici come il giornalista Raymond Dakè assassinato nella radio diocesana nel 2002: «Se rimani fedele al Vangelo, non ricevi tanti applausi. Dappertutto è così. Ma se qui critichi i potenti di turno la reazione può essere pericolosa. Eppure la Chiesa anche nei momenti peggiori ha sempre cercato di farsi voce di chi non ha voce. Il contributo di tanti missionari (padri, suore, laici) ha lasciato opere tangibili (chiese, scuole, ospedali). E ogni anno abbiamo circa un centinaio di nuovi battezzati in parrocchia e quasi 300 nei villaggi. C’è molta vivacità ed entusiasmo che si esprime anche nelle splendide liturgie domenicali. Nonostante la piaga della stregoneria che colpisce con processi sommari e interpella in profondità la fede delle persone».
Ma ancora una volta l’apporto di alcune Ong può essere fuorviante: «Il Centrafrica è falcidiato dall’Aids: l’aspettativa di vita è scesa sotto i 40 anni. Per decenni non ci sono state campagne di informazione e ora abbiam raggiunto livelli preoccupanti (oltre il 14%). Per questo da tempo abbiamo corsi di educazione sessuale in tutte le scuole cattoliche, e organizziamo incontri specifici con i giovani e gli adulti. Formare le coscienze è un lavoro lungo, ma che inizia a dare i frutti. Ma come possiamo debellare l’Aids se alcune Ong continuano a distribuire preservativi a pioggia? In una scuola ho trovato scatole vuote di preservativi dappertutto. Mi è stato detto che un’Ong ne aveva distribuiti 3 ad ogni maschietto. Come sensibilizzazione, si erano limitati a spiegare come si usano… Cosa fa un giovane che se li trova in mano? Va a provarli… a volte riusandoli, e questo al di là di un sano discorso sulla bellezza, la ricchezza e la responsabilità della sessualità… Senza dimenticare gli interessi economici di chi li produce…».
Agli occhi di chi vive sul campo le disparità tra Sud e Nord del mondo pare necessario un cambio di rotta nel modo in cui l’Occidente si approccia all’Africa: «Mi chiedo: quanto sinceramente c’è di altruistico in parte della Cooperazione e dell’intervento umanitario? Quanti soldi rientrano nelle casse dei donatori? Alcune grandi Agenzie dell’Onu consumano in stipendi e amministrazione tra il 70 e l’80%, e parte del materiale acquistato proviene da ditte dei paesi donatori. E in che misura l’aiuto ha creato una mentalità di assistenzialismo, che limita ed inquina molti rapporti tra Nord e Sud?». Domande che non hanno nulla a che fare con l’ideologia no global antioccidentale: «Ci mancherebbe. Non possiamo che essere riconoscenti all’Occidente per gli scambi culturali, la formazione e gli aiuti di questi ultimi decenni. L’Africa ha la sua parte di responsabilità. Troppo spesso, gli aiuti sono stati dirottati nelle tasche dei potenti e a volte hanno rinforzato dittature ingiuste e sanguinarie. La difficoltà più grande è scontrarsi proprio con autorità che invece di avere a cuore la crescita e il bene comune sono più interessate alle proprie tasche».
È una realtà a cui il cuneese padre Aurelio non si rassegna perché questa terra gli entrata dentro. A vent’anni quando era ancora “giu ma l’ai” (giovane come l’aglio), come ama dire in piemontese, era già in Centrafrica per uno stage di un anno. E l’impatto mise dura prova anche un aitante carmelitano scalzo di un metro e novanta: «Niente telefono, la posta a singhiozzo, le comunità di altri missionari a minimo 120 km… E poi la malaria, il caldo, la missione saccheggiata dai ribelli… Ma io sono “testun” come i piemontesi: ho un po’ di difficoltà a riuscire a scoraggiarmi». Ma c’è una ragione più grande: «Qui ho scoperto quanto Dio mi ama, e quanto ama l’Uomo. Mi alzo tutte le mattine con la voglia di ringraziare. Perché se do da mangiare a qualcuno che ha fame, è già qualcosa. Ma se posso dargli il Cibo vero, Gesù, io gli do tutto! Ed è un privilegio più grande di ogni fatica. Quando arrivai in Africa mi colpì una frase che trovai scritta su una casa: “Si Dieu veut, je ferai ce que je veux”, “Se Dio vuole, farò quello che voglio”».
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