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sabato 23 luglio 2011

Formazioni per maestri


I MAESTRI A SCUOLA…
Ieri, 22 luglio, ero a Bocaranga per la terza sessione di formazione dei maestri delle scuole elementari della regione.
Mentre gli alunni si godono le (più o meno) meritate vacanze… cosa fanno gli insegnanti?
Vanno a scuola!!!!
Non è una vendetta… né uno scherzo, né una punizione. Ma per poter insegnare come si deve, per poter fare un buon lavoro, un insegnante deve tenersi aggiornato, leggere, studiare…
Qui in Centrafrica, purtroppo, molto di questo è impossibile, perché i libri sono rari, le riviste ancor di più… Internet è, per molti, qualcosa che fa parte della fantascienza…
C’è un altro problema: molti degli insegnanti, non hanno un diploma e degli studi superiori… Molti sono giovani del villaggio che hanno studiato un po’ di più, ed accettano di insegnare qualcosa ai bambini del paese. Si chiamano “maitres-parents”, cioè i “maestri-genitori”: sono maestri pagati dai genitori degli alunni. O meglio… che dovrebbero essere pagati (molte promesse, poi spesso i genitori si dimenticano di portare qualche soldo, o un po’ di cibo al maestro…) .
È per questo che in questi giorni abbiamo organizzato una serie di formazioni per tutti gli insegnanti della regione. Sono circa 700 insegnanti che per 5 giorni si mettono dall’altra parte della cattedra, per imparare qualcosa di nuovo, per approfondire la preparazione e i metodi di insegnamento.
Lunedì 11 luglio abbiamo iniziato qui a Bozoum, con 210 insegnanti. In pomeriggio, nonostante un po’ di malaria, sono riuscito a partire verso il Nord, a Ngaundaye, a 205 km. Qui, martedì mattina, altri 254 insegnanti hanno iniziato la loro formazione. E la settimana scorsa c'era  la terza sessione, a Bocaranga, a 125 km da Bozoum, per gli ultimi 260 maestri.


Una delle cose belle del Centrafrica, è che i maestri sono molto contenti di poter partecipare e di essere formati… di tornare a scuola! Per 5 giorni sono in classe, dalle 8 del mattino alle 5 di sera… con una breve pausa per il pranzo.
E anche questo è scuola!

sabato 16 luglio 2011

Mangiare…

Eccoci qui, freschi freschi dalla Repubblica Centrafricana…
Oggi vorrei parlarvi un po’ di cosa si mangia e cosa si beve da queste parti…
.
Per i bambini, come per gli adulti, l’alimentazione è molto semplice, e spesso scarsa…
Quante volte si mangia? In genere c’è un pasto al giorno, verso sera, che è il pasto principale, quello che raduna tutta la famiglia. Al mattino un po’ di caffè (il latte è molto raro…) o quello che è restato dalla sera prima. A mezzogiorno, spesso c’è un frutto, una pannocchia di mais, o qualcosa che calmi la fame, aspettando la sera.


Qui il piatto forte, quello che sostituisce la pasta… è la polenta di manioca, che si mangia tutti insieme da un piatto comune, staccando il boccone e intingendolo nella salsa del piatto che la accompagna (in genere si tratta di verdure, oppure carne, o pesce, conditi con una salsa di pomodoro, oppure una salsa fatta con la pasta di arachidi).
Nei giorni di festa le donne del paese si sbizzarriscono a fare piatti un po’ più elaborati. E nascono così le KANDA, polpette di carne e semi di zucca (oppure di pesce, o caimano, o termiti, ma sempre impastate con semi di zucca).
In genere gli adulti apprezzano molto il peperoncino, un po’ meno i bambini…
Come carne… si mangia quasi tutto quello che si muove, purché sia commestibile…  dalla carne di bue, al pollo, anatre e bipedi simili. Senza dimenticare il serpente (in particolare il pitone… che è molto buono). C’è poi la selvaggina (antilopi e gazzelle,  conigli selvatici, faraone, scimmie, elefanti, il sibissi –che è una specie di castoro-). Senza dimenticare pipistrelli (ma solo quelli che vivono nei boschi, non quelli di casa…), topi e termiti. E… grande prelibatezza: i bruchi ( chiamati qui MAKONGO), che però,  confesso, non ho ancora avuto il coraggio di assaggiare…
Ritornando alla manioca, si tratta di un tubero, cioè qualcosa che cresce sottoterra. Quando si raccoglie, bisogna metterla a bagno in acqua corrente per 2 o 3 giorni, perché contiene un derivato del cianuro, che è velenoso. Dopo questa permanenza in acqua, la manioca viene spezzettata e messa a seccare, per la conservazione.
Prima del pasto, le mamme o le sorelle devono ridurre questi pezzi in farina. Molti lo fanno  a mano, in un mortaio, ma ci sono anche dei mulini con un motore a scoppio.
Quando l’acqua bolle, si butta la farina, si impasta bene, e la polenta è pronta. Buon appetito!

sabato 9 luglio 2011

PAGINE DA RISCOPRIRE I commenti al Vangelo, di Giorgio Torelli

09-07-2011

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
“Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me;
chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà trovato la sua vita, la perderà;
e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me,
e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta,
e chi accoglie un giusto come un giusto, avrà la ricompensa del giusto…”
Matteo 10, 37-42


Sul lunghissimo filo dei binari, che il sole di un’estate già ampia e possessiva manda in ansioso brillìo, corre a perdifiato il treno di mezzogiorno e frastuona le messi, irrompe in stazioncine per lo sgomento di un attimo, esige strada con un lamento rauco e subito lacerato dall’impeto, scarmiglia i papaveri e porta anche me, spettinato dai giri d’aria, le tende a sbattimento e i vagoni sfrenati.
Torno da Venezia a Milano, lo scompartimento è felicemente vuoto, ci siamo soltanto in due: mia moglie, col sorriso felice di quando viaggiamo insieme, ed io che vado svaporando perché ho finito i giornali e sciolgo la mente da ogni cura.

So cosa mi accade. Poso il capo all’indietro sul tumulto del divano, lascio che il trambusto ferroviario mi scuota, socchiudo gli occhi e permetto al primo pensiero di manifestarsi e dar luogo ai contorni: lo sento che palleggia, rimbalza e si perde.
C’era un cielo intenso poco fa. Adesso, i vapori già lo stemperano, avremo ancora due ore di viaggio. Carlina dice: “Mi piacerebbe fare un pisolino molto piccolo”. Fa sempre ciao con la mano, prima di dormire sorridente. Io ricambio con gli occhi contraddetti dalla luce e la guardo con un moto d’amore, composta nell’abbandono di ogni gesto, le scarpette di velluto blu col bottoncino e l’asola, le mani in grembo, e sono minute e così operose. E’ la persona della mia vita, protagonista di ognuno dei giorni – e sono ormai tanti – che abbiamo condotto lungo un numero così vasto di stagioni da stupirci per come veniamo, insieme, da lontano.

Eravamo studenti d’università quando avvistammo in cielo l’Orsa Maggiore. Prima, l’avevamo solo sfiorata, e ci pareva un disegno luminoso fra i tantissimi. Una lunga sera che i caprifogli odoravano, consentimmo insieme: “Abbiamo tanta strada davanti, ci sposeremo almeno fra sette anni. Vuol dire che ogni 31 dicembre conteremo una stella dell’Orsa in più, sarà il nostro calendario appeso nel cosmo. Finita l’Orsa staremo sempre insieme”. L’Orsa non bastò, ci volle anche la Polare.
Un mattino, salimmo un passo dell’Appennino, dov’è una chiesa fra i venti come un brigantino in mare aperto. I boschi dei castagni stormivano a gran foglie e si vedevano – acuti – gli empiti gialli delle ginestre. Le mani erano trepide nello scambio degli anelli e un frate, che pregò tanto nella sua vita coi sandali, andava pedalando un vecchio armonium di legno sbiadito: diventavamo uno, eravamo così giovani che m’intenerisco a ripassare.

Il treno supera le chiome d’acqua di un fiume che non saprei. Un nuovo pensiero sta dicendo: “Vedi Carlina che dorme? La vedi, no? Le vuoi bene? Tu sai quanto glie ne vuoi. Cosa daresti per lei? Tutto, il doppio di tutto oppure un tutto moltiplicato per le stelle dell’Orsa e la Polare? Tu rispondi che sì, mille volte sì: siete complici, intrecciati, composti, indispensabili l’uno all’altra finché vita vi sostenga. Ma qui ti voglio: il Dio che credi vivo e vero, il Dio con cui hai preso timidamente confidenza fino a consegnargli tanto del tuo divenire, quel Dio – il solo per te, la speranza stessa – ti prescrive di amarlo più che Carlina. E di mettere dopo quanto gli devi in pensieri ed opere, anche i vostri figli come sono e saranno: col dolce senno della madre, coi vezzi trasognati del padre. Tu, viaggiatore di oggi e dei tuoi giorni, che fai? E’ qui che ti voglio”.

Passano persone con valigie, forse cambiano vagone o si apprestano a scendere fra un po’. Uno domanda con accento che direi sassone: “Ferona?”. Preciso che manca poco, lo faccio a gesti, loro s’inchinano. Carlina non s’è svegliata.

Certo. Dio è esigente, e non potrei mai ammettere di collocarlo in una graduatoria di comodo. So di dovergli tutto che sia fuori e dentro di me, Carlina compresa, i nostri figli inclusi, il lungo percorso che mi ha portato fino ai capelli bianchi. Con un’impennata della mente gli tributo, di slancio, il posto: primo e senza discussioni, altissimo, verticale, così al sommo da rendersi non immaginabile, ragion d’essere e promotore d’ogni accento. Non accetto neppur di discutere il suo straripante primato. Viviamo nel palmo della sua mano, la stessa che ha configurato il tutto. Sì, lo accetto o, forse meglio: voglio così, non può essere che così. E, tuttavia, sento il cuore non corrispondermi del tutto.

Dico francamente a me stesso: “Quanto tempo ancora dovrà scorrere – e chissà se ne avrò – perché la mia ferma proclamazione (Dio che svetta) corrisponda a un sentire sorgivo? Amo con ammirazione la paternità di Dio, ma amo tanto anche le creature che mi abitano il cuore. Il Signore lo sa, e non mi resta che chiedergli ancora una mano: quella mano. Con lui ripetitore, capirò”.
Carlina s’è svegliata allo stridere dei freni, le prendo il mento. Una volta, mi scrisse: “Non voglio essere per te un fine, ma soltanto un piccolo mezzo”.

sabato 2 luglio 2011

PAGINE DA RISCOPRIRE I commenti al Vangelo, di Giorgio Torelli


02-07-2011

In quel tempo Gesù disse:
“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti
E le hai rivelate ai piccoli.
Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te…
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me,
che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro  per le vostre anime.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero
.
    
Matteo 11, 25-30


Nel silenzio ventoso del pomeriggio, che un sole filtrato da impercettibili nubi consegna alla levità, vado a ciliegie col mio amico Pino e m’attardo a mirare la dovizia delle messi.

Noi siamo su un’erta che contempla larghi giri di colli e dolci peripezie di una terra mossa, tutta dedita a ondularsi per vaghezza di forme. E abbiamo a perdita d’occhio, fin dove le linee dei crinali concludano la cerchia di un vivere riposto, il frumento marezzato d’oro, e poi l’orzo trepido e biondo quanto una fanciulla nordica che s’annodi le trecce. E’ un paglierino stemperato, quasi un pallore. Avevo un libro di leggende scandinave, lo ricordo fra le mie mani di bambino: ogni ragazza portava chiome d’orzo e si pettinava assorta al freddo della fonte.

Se il vento posa un attimo, si sente ruscellare l’acqua anche qui. C’è un rio segreto che traversa le colture e s’attarda un attimo al limite del bosco.: è lì che si mette a galleggiare l’anguria verde e nera perché ilo filo della corrente la rinfreschi. L’erba medica è alta, sa di buono, la brezza insiste a sfiorarla insieme ai voli spericolati delle rondini. S’alza, dalla fattoria, un nitrito a lunghi brividi e le cavalle di dà dal dosso lo riproducono. I bei cani, dal pelame color miele, restano accucciati dove l’ombra del pagliaio si disegna sulla polvere. Il candore delle colombe insiste a stendere le ali oltre le annose tegole abitate dagli storni: tutto è mirabile quiete, e par di coglierne il respiro.

Pino, scalzo e coi baffi assiepati, mi guida oltre il recinto dei daini: è nato un cucciolo pochi giorni fa, resta impettito a fissarci, gli occhi dilatati, le zampette che vibrano, la madre paziente e amorosa. Soffiano dai becchi egizi le oche del Nilo e si levano ansiosi i due cigni. Hanno una vecchia vasca da bagno per flottare, Pino l’ha portata da lontano sul tetto della Cinquecento e ogni giorno la ricolma col getto della canna, che fa l’arcobaleno.

Il ciliegio non è lontano, basta scendere un declivio e inoltrarsi dove il fitto delle robinie vibra di foglie e il sottobosco è abitato dal guizzo bianco dei coniglietti. Ecco il rosso a ciocchi dei frutti, sarebbe bello salire l’albero. Pino sa farlo in pochi slanci, ma oggi regge una lunga pertica con le cesoie: gli va bene potare i rami, tira lo spago, il fervore delle ciliegie mi cade sulle mani accostate, le gazze ci hanno lasciato la Provvidenza e c’è anche un usignolo – sicuramente non lontano – a modulare il suo canto d’amore.

“Canta ogni notte?”, domando a Pino. E lui, frugando nell’alto della pianta: “Sempre, e lo sentissi quando si alza la luna”.

Ormai, le ciliegie sono tante, Pino s’infratta alla cerca di un altro albero (“Voglio che tu senta anche quelle”) e io resto solo al cospetto di tutto. Mi sono steso su uno spazio di prato e guardo meglio il boschetto: scopro anche un frassino, poi un castagno fiorito e un severo sambuco. L’usignolo si avventura in una frase fiorita e la conclude con un ricciolo. Provo a mettermi le ciliegie agli orecchi. A mia madre piaceva farlo quand’ero cucciolo come il daino. Andavo a vedermi allo specchio, mio padre voleva la fotografia. Aveva una macchina a soffietto, prescriveva: “Fermo così”.

Tiro su un sospiro. Schizzo lontano i noccioli che resteranno dove cadono, la pioggia e il tepore faranno nascere altri alberi, verranno le gazze, l’usignolo ricamerà sempre. Sento, per un breve trasalimento, la gioia d’essere compreso nella Creazione e avverto crescere una fronda di letizia assolutamente semplice, elementare, casta. Dico adagio, ma non sottovoce, dico al limite del bosco e per il cielo così pacato che mi sovrasta: “Signore, ti riconosco”.

Non ho con me un libro che sveli chissà cosa. Sento Pino lontano, il pomeriggio è senza tempo, non saprei formulare altri pensieri che quelli di un uomo tuttora stupito dalla bellezza, ascolto il ripetersi del cuore che mi dà vita, ammiro ogni segno.

Il ciliegio fa la sua parte, l’usignolo è più che mai se stesso, il sambuco si ripropone così come impongono le sue stesse linfe, le messi sono puntualmente tornate, ogni nube si sfiocca per servire la terra, la sera si approssima perché c’è già stato il mattino, i miei noccioli contengono il prodigio di ogni dopo, i fili d’erba sono immensi testimoni di una grandezza: mi serve forse altro per intendere, nella puntualità amorosa di un ordine, il dito immaginifico di Dio, la potenza affettuosa di lui, il suo prodursi perché la consapevolezza ci cresca fino ad adottarlo?

Afferro oggi, più che sempre, la vastità del proposito divino: i piccoli intenderanno, gli orgogliosi avranno di che gemere. Una ciliegia racchiude più messaggi di qualunque fatica critica, l’usignolo – ora lo decifro – è un evangelista d’Appennino. Dice, ridice, il sole, la luna.
Mi consegno, a mani spoglie, dalla teologia di un prato.